A questo regolamento si è arrivati dopo lunghissime battaglie tra i produttori del nord Europa e quelli, diciamo, mediterranei sulla quantità di anidride solforosa (zolfo, sulle etichette alimentari E220) da aggiungere al vino, per bloccare lo sviluppo di batteri o una eccessiva fermentazione o come antiossidante (per questo i vini bianchi solitamente ne hanno di più). Ora non stiamo a questionare su chi avesse ragione e chi torto (e nemmeno se è la solforosa a causare in sè il mal di testa o è stato quel maledetto mezzo bicchiere in più…), è più interessante dire che 100 milligrammi per litro sono quelli ritenuti massimi accettabili per i vini rossi mentre per i vini bianchi non bisognerà oltrepassare i 150. Alla fine si è ovviamente arrivati a un compromesso e come tutti i compromessi è migliorabile. Certo è che anche qui su Avvinando abbiamo parlato di vini non biologici che su questo parametro rientrerebbero già nel nuovo regolamento.
Ovviamente la disciplina è ben più articolata della semplice questione dell’anidride solforosa. Si parla di tutte le sostanze ammesse nel processo di vinificazione (guarda un po’ compaiono anche i famigerati pezzi di legno di quercia) e si specifica che sono ammesse sostanze che al consumatore medio parrebbero quantomeno strane per un vino bio: si va dal bitartrato di potassio (una volta noto come cremor tartaro), il solfato di rame (sì, sì, proprio il vecchio verderame) o il diossido di silicio (il silicio, per dirne una, serve per fare i chip del computer con cui state leggendo quest’articolo).
Ora, per carità, alla Ue non sono dei pirla, per dirla alla Mourinho. Sicuramente le quantità permesse sono tali da non comportare un rischio per la salute. Però il problema sta a monte: è vero che per fare un vino trasportabile in giro per il mondo e conservabile senza che diventi aceto nel giro di 15 giorni al primo alzarsi della temperatura, insomma per fare il vino bevuto normalmente dal 99% delle persone, la solforosa è necessaria. L’inghippo sta nell’uso commerciale del termine biologico, che dovrebbe solo significare “secondo natura”, come dice la parola stessa. Questo vino dovrebbe provenire da vigne dove non si spruzza niente di chimico sopra o sotto (nei concimi), dove una volta raccolta l’uva di pressa e si mette in botte, punto. Niente chiarificazioni, niente correzioni, niente stabilizzazioni. Questo è biologico, cioè come il consumatore medio si immagina che sia. Tutto il resto è buono lo stesso ma non è bio. Il biologico va tanto di moda e fa guadagnare dei bei soldini? E pazienza. Ce ne sarà pochissimo e sarà costosissimo però almeno non staremo a prenderci in giro.
Ma allora, è l’obiezione, come farebbe il solito consumatore medio a distinguere quando il vino è decentemente trattato da uno che lo è pesantemente? Semplice, con l’unica cosa che dall’Unione europea non è stata presa in considerazione perché non conviene a nessuno: una seria etichetta dove compare tutto quello che c’è dentro al vino, certificato da enti indipendenti come avviene con l’acqua minerale. Con in più il resoconto della tracciabilità dell’uva (prodotta in proprio, comprata da terzi, in che percentuale e da chi) come succede per la carne. Allora sì che il consumatore sarebbe tutelato. Il problema? Che ne leggeremmo letteralmente delle belle.
Sergio Bolzoni