Dici Pantelleria e pensi al passito, ai capperi, ai dammusi, a un grande territorio. Una ricchezza di immagini che sembra confliggere fisicamente col fatto che a Pantelleria è tutto piccolo. Le strade, le scritte sui cartelli che ne indicano le direzioni, le macchine che le percorrono, le case, gli ulivi, gli alberi da frutto, i capperi, le viti ad alberello.
Una bellezza magnetica, vivida, il tempo che sembra girare in modo diverso. A volte gli orologi sul cellulare impazziscono e guardando i fiori, le palme, gli occhi azzurri e i nasi moreschi delle persone non sai mai dove ti trovi veramente. Un po’ in Europa, un po’ in Africa, insomma al centro del Mediterraneo. La sensazione di sentirsi a tratti disorientato, tu stesso piccolo in ossequioso rispetto alla maestà delle cose grandi: il vento, il mare, la montagna, il sole, la forza che si sprigiona da sottoterra, gli elementi che hanno forgiato il territorio.
E poi c’è la fatica umana, che ha strappato la terra a posti dove non c’era, che ha sapientemente centellinato ogni goccia e raccolto l’acqua per coltivare nei luoghi in cui non esiste nemmeno una sorgente, che ha saputo inventarsi colture impossibili scavando o costruendo “fortezze” a protezione delle preziose piccole piante.
Ed ecco che la vite ad alberello diventa patrimonio UNESCO e sagoma un territorio unico grazie alla sapienza e al lavoro secolare dei panteschi, dicevamo. Lo testimonia il bel documentario “I guardiani della terra” di Nicola Ferrari.
Lavoro dell’uomo. Enorme quello delle persone di Donnafugata nel valorizzare un territorio con la creazione di vini che lo rendono famoso in tutto il mondo. Del Ben Ryè, il grande passito da zibibbo bandiera dell’isola, non ci sarebbe neppure bisogno di parlare ulteriormente. Qui su Avvinando ne raccontiamo spessissimo le annate, citandolo, non solo come grande vino dolce ma semplicemente come grande vino italiano. Una spremuta di Mediterraneo. Sarebbe però riduttivo parlare soltanto del vino senza osservare con i propri occhi i luoghi, la tenuta di Khamma stampata sull’etichetta, da cui nasce. Respirare il senso di comunità nel lavoro quotidiano degli uomini che curano questa terra e condividerne la mensa nella pausa dalla fatica quotidiana. Invenzioni per coltivare dicevamo. Le buche scavate per proteggere i piccoli alberelli di vite o il giardino pantesco, un vero e propria “fortino” a difesa degli agrumi, dove non si può descrivere il profumo delle zagare, dove entrando si deve chinare il capo omaggiando la pianta che ti sfamerà durante l’anno. Il recupero di cose antiche come il cammino di Khamma, passeggiando mentre si ammirano i terrazzamenti, i cappereti storici, le viti ad alberello secolari, gli ulivi cresciuti in orizzontale, le piante mediterranee di ogni tipo che sprigionano profumi unici, sferzate dal vento.
Parla dell’isola anche il travolgente entusiasmo e l’approccio rock di Fabrizio Basile. Con lui il vino pantesco guarda fuori dall’isola, miscelando tempo, zibibbo, legni e un po’ di sana follia. E se di esperimenti si tratta, sono riusciti. DaI bianco Sora Luna, tutto freschezza e aromaticità ma dalla grande polposità e profondità di beva, al Trequarti di Luna che parte dall’isola e punta i bianchi internazionali per struttura, ambizione e complessità. E poi le bollicine, i passiti e gli ossidativi che lasciano di stucco, il tutto all’insegna di una passione vulcanica che non può che essere contagiosa.
Sarà il fermento che si sprigiona dalla terra con i vapori che vanno verso il cielo e nelle acque calde che ribollono il segreto di tutta questa magia, di questi sapori e di questi vini da far girar la testa e farti sentire piccolo. Qualcuno qui ci ha detto che quanto più i frutti sono piccoli tanto più sono aromatici e quanto più sono vicini a terra tanto più sono buoni. E allora sentirsi piccoli non sarà tanto male su quest’isola unica al centro del mare nostro.
Raffaele Cumani
@raffaelecumani