Quando l’Etna è più vicino al Paradiso

20120329-211732.jpg

Lo confesso: finora tutto questo entusiasmo per il nerello mascalese, vitigno tipico dell’Etna non lo avevo molto capito. Vuoi per il colore un po’ scarico, vuoi per la gradazione alcolica, lo avevo sempre associato a un nebbiolo a cui però mancavano la profondità e la compostezza.
Fino a quando, stasera, ho trovato nella mia cantina una vecchia bottiglia di Etna rosso de I Vigneri del 2006. Da solo a casa, mi sono detto, proviamo ad aprirla. Scettico. Sarà sicuramente da buttare. Vabbè la stappo e intanto mi preparo la cena. Niente di complicato: un piatto di formaggi rigorosamente della Valsassina e una bella insalata amara del produttore che ha gli orti dietro casa mia.
Passati circa 20 minuti ci metto il naso dentro e… Incredibile, il mio cervello ha uno shock sensoriale. Come fossimo in un film di fantascienza ho un transfer (Scotty che ha combinato? Mi riporti sull’Enterprise) e mi ritrovo immediatamente all’ultima volta che sono stato sul vulcano. Non è possibile, mi dico. Guarda te cosa fa l’autosuggestione di una etichetta. Dai, facciamo i seri: ricordati quelle quattro cose in croce che ti hanno insegnato quando si degusta un vino e provati ad essere presente con l’immaginazione.
Ok, allora il colore è di un bel rosso granato scarico (cielo, che frase fatta! Ma quante volte l’ho sentita?). Al naso? Io nonostante sia bello grande non sono bravo col naso. Sento chiarissimo un aroma di china, e poi uno che mi ricorda i profumi dei mazzi di fiori misti, quelli forti che per chissà quale magia portati in casa trasformano un monolocale in un un castello, per dirla con Jovanotti. C’è anche una nota dolce. Probabilmente in Sicilia direbbero che è una stupidata, ma a me ricorda il profumo dello zucchero di canna bruciato per la creme brulé. Il fatto è che però c’è qualcosa che mi sfugge e che alimenta la mia suggestione, ma non ci arrivo al primo bicchiere (eh, sì, ce ne saranno molti altri). Poi capisco: sotto c’è un non so che che mi ricorda il profumo della pietra lavica. Voi direte: eccolo qui, o è ubriaco o è suggestionato. Sarà.
Quando lo assaggio però sotto uno strato di leggero gusto di cioccolato e noce, c’è ancora, chiarissima la sensazione di un bouquet sensoriale davvero unico, che riporta la mia immaginazione a una escursione sull’Etna, quando mi mangiai un panino col salame seduto su un fiume di lava solidificata piena di… Coccinelle.
D’altronde che altro può voler dire che un vino è espressione di un territorio se non che deve farcelo ricordare?
Mi guardo bene la retro etichetta e scopro che non c’è scrutto nulla se non che è imbottigliato a Randazzo da un certo Salvo Foti. In teoria a questo punto dovrei almeno farmi una ricerca su internet, vedere il sito de I Vigneri, capire chi è Salvo Foti: se un contadino o un enologo di fama mondiale, probabilmente entrambi.
La verità è che non me ne frega nulla di chi sia. So soltanto che il suo vino mi ha regalato emozioni così profonde come pochissime altre volte mi è capitato di provare. Tanto a cercare con Google siete capaci tutti. Io lo farò prima o poi. Prima o poi scoprirò anche quanto costa, visto che si tratta di un regalo. Ma non ora. Ora ho una sola bottiglia di questo Etna rosso e me la voglio godere scevro da sovrastrutture.
Cosa vi posso dire? Non so manco se esiste più questo vino. La bottiglia la vedete in foto, l’annata è 2006, probabilmente riposava nella mia cantina da 2 o 3 anni, non ricordo nemmeno bene. Non so fare le classifiche. Sicuramente ora ho capito che un nerello mascalese può regalare emozioni profonde, se fatto così. Questa parodoia di degustazione è avvenuta in diretta, nel senso che la bottiglia aperta è lì da vedere in foto; dopodiché mi sono messo a scriverla di getto. Signor Foti, grazie. Chiunque lei sia.
Sergio Bolzoni