Viaggio nel Vesuvio del vino: modernità con radici antiche

Statua di Bacco nella villa Augustea a Somma Vesuviana

 

Sul Vesuvio si fa vino fin dai tempi dei Greci, per non parlare dei Romani che ne fecero un’industria. La storia però si interrompe e con i parametri moderni possiamo dire che riprende da pochi anni, con il nuovo disciplinare della doc che data soltanto 2017. 

 

L’agricoltura del dopoguerra e del boom economico

Cosa succede? Succede che nel dopoguerra prima e con il boom economico degli anni sessanta l’agricoltura perde di centralità. Sono le fabbriche il nuovo eden per dare sostentamento alla popolazione sempre in aumento (la conurbazione tra i paesi vesuviani e Napoli tocca oggi i 4 milioni di abitanti) in cerca di lavoro per sfangare un lunario fatto frequentemente di povertà. E quindi Bagnoli, Pomigliano, quando non il dramma dell’immigrazione al nord: Fiat, Alfa Romeo, Breda. 

L’agricoltura quindi diventa marginale. Resta – a parte pochissime eccezioni – un hobby di famiglia e così la vite e l’ulivo retrocedono a ruolo di comprimari nella società vesuviana. Tanti piccoli appezzamenti, uno per famiglia, in cui andare la sera o la domenica. 

 

 

Intorno al Vesuvio e al monte Somma la vite torna ad essere una risorsa

L’avventura industriale sappiamo come è andata a finire e così da qualche decennio si è ricominciato a guardare al territorio, alla vite. Sono così nate – o rinate – attorno al Vesuvio e al dirimpettaio monte Somma (prima di Pompei erano un unico grande vulcano), decine di aziende che hanno puntato sulla viticoltura autoctona. Anche perché qui c’è la fortuna di avere ancora piante a piede franco, alcune antichissime pre-filossera. Tanto che per creare una pianta nuova in vigna quando serve non si fa altro che interrare un ramo della vite accanto, aspettare che metta radici e poi la si separa dalla pianta madre. In questo modo “la purezza” clonale della vigna viene mantenuta al 100% senza sforzo.

 

Lacryma Christi: il principe del Vesuvio

Oggi il Piedirosso e il Caprettone – uve che più autoctone non si può – Aglianico e Falanghina la fanno da padrone nella zona il cui vino più famoso è il Lacryma Christi declinato sia in rosso che in bianco. Il blend delle due varietà di rosso danno vita al Lacyma Christi rosso, il Caprettone (per carità non chiamatelo Coda di volpe che finalmente si è capito essere un’altra cosa) e la Falanghina il bianco. E c’è anche il rosato.

Nasce il Consorzio tutela vini del Vesuvio

Ed è attivo sul territorio un Consorzio tutela vini del Vesuvio che si occupa tra l’altro di far conoscere questo nuovo (ma antico) territorio con manifestazioni come Vesuvio Experience – Campania Wine (di cui parleremo espressamente in un prossimo articolo) che hanno lo scopo di fare il punto sulla enologia che si inerpica su questo vulcano famoso in tutto il mondo.

Degustazione presso la sede del Consorzio tutela vini del Vesuvio

 

Per il momento possiamo dire che i vini del Vesuvio denotano tutti una spiccata personalità. Chi non è della zona li troverà “diversi”, espressione di una territorialità estrema ma anche estremamente interessante. Soprattutto considerando che sono all’inizio di un percorso che evolverà negli anni. Dei singoli vini in particolare parleremo espressamente nelle prossime settimane. Stay tuned

Sergio Bolzoni

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